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Quarta fetta di Mellone – Estate 2018 – Che ne sai tu di un campo di tabacco
Di Antonio Mellone (del 04/08/2018 @ 11:56:06, in Fetta di Mellone, linkato 1963 volte)

Il vocabolario d’italiano della mia famiglia non contemplava il lemma “vacanza”: che invece credeva fosse (e crede tuttora sia) arabo.

Sicché, come detto altrove, nell’infausto mese di giugno da noi iniziava la Raccolta Del Tabacco e sul tema non erano previsti margini per chissà quali speculazioni filosofiche da parte di uno sbarbatello come il sottoscritto che prima di diventare un No-Tap era giustamente un No-Tab (Tab = tabacco).   

Si partiva senza indugio con il frunzone, cioè le prime foglie in basso, quelle che toccavano terra, le peggiori, le più infide. Io raccoglievo ginocchioni queste benedette foglie, strisciando nella polvere della dura gleba manco fossi un devoto pellegrino genuflesso in uno dei santuari del Prodotto Interno Lourdes (Pil).

Avevo le ginocchiere a quei pantaloni inguardabili di due taglie più grandi. Nel frattempo ogni foglia strappata alla pianta era un’imprecazione dentro di me e una fervida preghiera a Zeus, dio del fulmine, affinché benigno scagliasse su quelle piantagioni la più portentosa delle sue sajette. Credo di essere stato uno dei precursori, se non proprio l’inventore, della Giornata Mondiale Senza il Tabacco che tanto successo riscuote oggi in ogni angolo della terra.

La raccolta avveniva la mattina presto prima del canto del gallo. Per dirvi il livello di disperazione ero arrivato a invidiare perfino quello stupido pollastro che, per quanto stupido, aveva comunque il privilegio di svegliarsi dopo di me. E voi non potete nemmeno immaginare il groviglio dei miei pensieri all’indirizzo dei suoi avi defunti.

Si lavorava dunque al lume di luna e stelle: e io mi sentivo alternativamente un po’ Giacomo Leopardi pervaso dal pessimismo cosmico, a tratti un licantropo (il famoso lupo mannaro americano a Noha), e talvolta un vampiro ormai terrorizzato dalla luce del sole.

*

Il tabacco si cuciva con l’acudeddhra, un ago lungo trenta o quaranta centimetri. Quest’aculeo d’acciaio, venduto anzi spacciato dagli zingari al mercato del giovedì di Galatina, presentava una cruna dove si infilava lo spago di circa un metro di lunghezza. Io da quella cruna m’aspettavo di veder passare tranquillamente un cammello, piuttosto che il ricco di turno - che si stava viepiù arricchendo anche grazie al mio indefesso lavoro - entrasse nel regno dei cieli.

Quando si riempiva la filza si staccava dall’ago e, doppiandola, la si parcheggiava di fianco insieme a tutte le altre. C’era anche una sorta di gara fra poveri cristi su chi ne sfornasse di più. Anni dopo all’università appresi che questa abiezione si chiama produttività, ovvero asserto di Kunta Kinte (quest’ultimo enunciato è copyright del sottoscritto).

Le mani era praticamente impossibile proteggerle con i guanti di plastica o con preservativi di altro materiale, tanto che in breve si riempivano di quella sorta di grasso nero appiccicoso e insopportabile, altrimenti detto siu. In quei frangenti, intrattabile com’ero, era pressoché impossibile avvicinarmi, pena la topica imprecazione icastica idiomatico-liberatoria indirizzata urbi et orbi che suona: cu butti lu siu.   

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Dopo l’infilatura o la cucitura bisognava appendere le corde al telaio (taralettu) per l’essiccatura.

Ebbene. Quando il tempo si annuvolava o quando iniziava a piovere (chissà come mai i temporali estivi capitavano proprio quando avevi da poco posato il capo sul cuscino per la sacrosanta pennichella pomeridiana) eri costretto ad alzarti dalla branda per correr fuori all’impazzata a ricoprire i telai/taraletti con la Manta Di Plastica. Chi se ne fregava se t’inzuppavi con l’acqua dei gavettoni scagliati dagli angeli del cielo in vena di scherzi da caserma: l’importante era non farla prendere al tabacco che poteva sciuparsi o assumere un colore sgradito al  monopsonista acquirente dotato di cravatta in senso letterario e in senso letterale. Per la cronaca nessun tabacco, nemmeno il più curato nei dettagli, fu mai pagato adeguatamente e soprattutto per pronta cassa. E tu, insieme a molti altri, eri costretto ad ascoltare sotto le volte del magazzino di consegna la solita salmodiante voce del padrone che faceva: àggili bbire [i.e. aspetta e spera].

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Decenni dopo arrivò Marchionne (parce sepulto), amministratore delegato della fabbrica dei consensi, incensato dal clero mediatico-giornalistico dell’ordine del neoliberismo, e applaudito dal gregge di fedeli precarizzati e senza coscienza.

Ancora fumo. Di quello buono.

Antonio Mellone