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Maria Teresa, Elisabetta e La Roncella
Di Antonio Mellone (del 16/02/2022 @ 20:52:01, in NohaBlog, linkato 2050 volte)

Accanto alle mie Fette di Mellone sarebbe forse opportuno dar vita a una nuova rubrica da denominare Fette di Polpettone. Nella prima antologia, ormai ultradecennale, si raccattano brani di peste e corna; nella seconda estratti di pasta e carne.

Le prime – così invise ai devoti della religione del politicamente corretto - sono dedicate alle gesta eroiche di pOLITICI soprattutto ahimè locali (una prece), nonché alle prodezze imprenditoriali di chi sembra fatto apposta per fare strame di beni un tempo comuni tipo acqua, spiaggia, scogliere, aria, campagna, storia, arte e, con l’occasione, grammatica, sintassi e diritto; le seconde contemplano invece le leccornie di chi in direzione ostinata e contraria ha deciso di non svignarsela dal paesello (parlo di Noha), ma di radicarvisi viepiù aprendo bottega, sfidando il fato e un bel po’ di luoghi comuni, onde il primo prodotto da banco è il coraggio (ebbene sì, molti giovani di queste contrade per fortuna ne hanno da vendere).

Son così passati in rassegna sotto forma di inchiostro questa volta simpatico (mentre la penna delle Fette di Mellone viene intinta perlopiù nell’antipatico) pescherie e frutterie, pizzerie e rosticcerie, pasticcerie e bar a chilometro zerovirgola. Questa è la volta di una gastronomia da asporto “nuova di zecca”, inaugurata in via Aradeo nel mese di luglio dello scorso anno, appellata La Roncella e gestita dalle sorelle Maria Teresa ed Elisabetta Colazzo.

Ci ho dovuto apporre le virgolette a Nuova Di Zecca in quanto è vero che insegne, laboratorio, vetrine, bancone e titolari non hanno alle spalle chissà quanta archeologia di scartoffie legate al mondo dell’imprenditoria, ma di certo vien da lontano quella dote ricevuta da mamma Anna sotto forma di segmento di Dna, la quale a sua volta l’aveva raccolta in dono dalla Lina, sua genitrice e antesignana di questa storia partita, appunto, dalla dispensa di nonna.

Dovete sapere che Lina Tundo in Cisotta (che abbiamo sempre chiamato Linacisotta, senza iato, con una sola emissione di fiato) è una mia vicina di casa, conosco i suoi tre figli Giuseppe, Anna e Angela da una vita (sissignore, un pizzico di conflitto di interessi ci sta tutto, ma nessuno può accusarmi di scrivere con le fette di salame sugli occhi), e non potete immaginare quanto sublimi siano la sua pasta fatta in casa, la pignata di legumi, e le zeppole fritte e al forno (che Giuseppe portava a scuola il giorno dell’onomastico, e che sparivano in pochi minuti manco avessimo avuto addosso la fame degli affamati del mondo). E non sto qui a divagare della Linacisotta, e del suo adorato Luigi, delle lunghe tavolate di carnevale che seguivano i balli in maschera nel salotto di casa sua sempre così ospitale, e quindi dei Valzer (ne avverto ancora i capogiri) e della Quadriglia, e dunque del ballanzè con la dama davanti, se no forse uscirei fuori tema e la maionese impazzirebbe. Qui mi basti aver fatto cenno al fatto che queste due ragazze, con la supervisione di Anna, attraverso il loro quotidiano lavoro fatto di gusto e affetto, riescono a tenere unite tre o forse più generazioni, sicché le loro ricette sono veri e propri atti pubblici di accettazione di eredità.

Il vero lusso è fatto di piccole cose, di vicinanza, economia paziente, interdipendenza, cibo buono che diventa noi (che siamo quello che mangiamo), immaginazione e storie: come questa che parla della Roncella e di due signorine belle e coraggiose.       Tramandare gli antichi sapori e i profumi del Sud [attenti a non sbagliare profumeria eh, ché Euphoria della Jennifer Misciali è a una decina di metri più in là, ndr.] non è mica uno scherzo: significa lottare contro i colossi culinari che ti arrivano in casa via Glovo, alzarsi presto la mattina e andar per campi (Roncella è la campagna nohana da cui tutto è partito e alla quale tutto ritorna), ristrutturare una vecchia dimora con volte a stella in via Aradeo e adibirla a laboratorio e punto vendita, acquistare gran parte delle materie prime da contadini e piccoli commercianti indigeni, piantare nel piatto la propria storia condendola con la geografia, senza scordare l’estetica (il cuoco dev’essere anche un estetista, vero Elisabetta?), far girare le idee prima ancora che il mestolo in pentola, tenere unita una famiglia (anche papà Stefano è sempre disponibile, per esempio per il trasporto vivande), stilare un menù dall’antipasto al dolce tutti i santi giorni (e pubblicarlo con commenti originali e foto e filmati sulla propria bacheca sociale), insomma sentirsi comunità, conservare un posto a tavola agli assenti, e ricordarsi chi siamo stati e potremmo ancora essere.

Fidatevi del sottoscritto che, non per nulla, ha frequentato la Bocconi. La scuola – nomen omen - di arte culinaria. 

Antonio Mellone