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Noha e i castelli in terra più che in aria
Di Antonio Mellone (del 03/04/2021 @ 19:57:36, in NohaBlog, linkato 1089 volte)

Ci sono parole che si rovinano, invecchiano rapidamente, rischiano di dire il contrario di quel che avrebbero voluto, forse perché esauste, proferite con superficialità quando non in mala fede, ripetute a pappagallo, dunque razziate dal potere. Senza andare troppo lontano basti pensare a Crescita, Sviluppo, e ultimamente anche Economia Circolare, Sostenibilità, Resilienza, e ulteriori lemmi o locuzioni da Recovery. Del resto la storia è costellata dagli espropri dei vocabolari più che da quelli proletari, essendo il vocabolario probabilmente uno dei beni più preziosi di un popolo, che dico, di ciascun individuo (onde il povero don Milani aveva ragione due volte).

Altre parole sono sulla buona strada del loro (e nostro) logoramento, vista la puntualità svizzera con la quale vengono utilizzate in convegni o in programmi elettoral-amministrativi. Mi riferisco a Riqualificazione e a Valorizzazione. Ricordo, così solo per fare due esempi, che in loco era considerata Riqualificazione (e temo lo sia tuttora per molti conterranei) la trasformazione di ventisei ettari di campagna galatinese in un mega-parco commerciale; e si continua senza alcun ritegno a parlare di Valorizzazione financo della basilica di Santa Caterina d’Alessandria, manco fosse una merce da prezzare sul mercato o un business da quotare in borsa.

Ebbene, personalmente considero valore ciò che per altri (tanti altri) temo sia un disvalore. E viceversa. Tipo il turismo quale “volano” (anche Volano non scherza) di tante belle cose, mentre io ne provo perfino orrore, attesa la visione predatoria peculiare di molti fenomeni di massa, perniciosi anzichenò per loro stessa indole.

È inutile dire quanto l’abbandono del natio borgo selvaggio, più prosaicamente paesino, sia ormai una malattia conclamata, una vera pandemia con un indice Rt strettamente maggiore di uno (e non mi si dica che scimmiotto i virologi, ché l’Rt lo studiai in Statistica qualche decennio fa). Al di là delle buone intenzioni e delle eccezioni, la regola aurea sembra essere quella della forza centripeta il cui centro di gravità permanente diventa la città (preferibilmente metropolitana) con connesso spopolamento della provincia. Si tratta di un discorso sistemico, voluto dalla classe dominante e dai suoi caporali dotati di un iban da impinguare oltremodo, tanto i gregari si trovano sempre in abbondanza e perlopiù gratis.

Per fortuna c’è ancora chi resiste e, credendo nella propria piccola patria, ha deciso non solo di restare, ma di provare a utilizzare parole diverse, possibilmente meno inflazionate. A Noha, per esempio, abbiamo le piccole botteghe (oltre al pugno di ambulanti del mercatino settimanale di via Michelangelo) nonché gli artigiani e i contadini che compiono quotidiani atti di residenza, vale a dire resistenza, e in molti riescono pure a vincere contro i colossi di turno come tanti Davide. E abbiamo due fratelli e un cognato che non sono l’Hilton o il Marriott (per fortuna), i quali senza attendere l’arrivo dello straniero o dell’imprenditore del turismo pronto ad acquistare immobili da trasformare in resort (o addirittura in “eco-resort”) di gran lusso, decidono di buttarsi nell’avventura del recupero del vecchio maniero di Noha, lasciato da decenni nel più totale abbandono da un’aristocrazia decrepita che non si fatica a pensare storicamente parassitaria. Lavorano da tempo giorno e notte con l’aiuto di amici e maestranze locali per recuperare la struttura al fine di rassettarne una decina di camere per gli ospiti che avranno il ghiribizzo di venire a Noha in qualità di viaggiatori più che di turisti. La differenza non è di poco conto, essendo i primi (al contrario dei secondi) alla ricerca del peculiare più che della formula indifferenziata a pacchetto, e dunque dei sapori di una volta, del profumo di zagare all’ombra di una torre medievale, delle rughe di pietre antiche e belle. E magari anche di musica prodotta se non dalle canne di un organo positivo da un pianoforte a coda da piazzare in una delle sale del castello e, perché no, di rime di poeti riecheggianti negli antri ipogei.

Esiste, ed è quella popolare e locale, un’economia che decentra non concentra, allarga non restringe, moltiplica non sottrae, distribuisce non accaparra. Basata su un codice etico certamente arcaico ma sacro, è incardinata nelle relazioni tra pari, nell’identità e nella memoria, nell’equo compenso più che nell’extraprofitto, nell’uso più che nello sfruttamento, nella diversità più che nell’omologazione.

È questa forse la salvezza di un paese che voglia provare se non a coniare parole nuove, almeno a preservarne il senso di quelle testarde, tipo Decrescita, Resistenza, Spirito, e soprattutto Comunità. Concetto, quest’ultimo, affatto dissimile (se non l’esatto opposto) di Community. Nella prima ci si conosce un po’ tutti; nella seconda, nonostante gli emoji, si finisce sovente per essere dei perfetti sconosciuti.

 

 Antonio Mellone

[articolo apparso su “il Galatino”, anno LIV, n. 5, 26 marzo 2021]

 

 

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