Di Marcello D'Acquarica (del 22/11/2020 @ 19:02:05, in NohaBlog, linkato 1301 volte)

Mi verrebbe quasi voglia di fidarmi degli addetti ai lavori che si occupano dei beni comuni, tipo l’aria, l’acqua e la terra, e quindi di lasciar perdere tutto quello che mi passa per la mente e che vedo in giro. In fondo, penso, come si usa dire: “andrà tutto bene”. Così chiudo i pensieri per una frazione di secondo. Ma poi certe immagini mi ritornano davanti con prepotenza, e con esse le parole dette, insieme a tutti quei dati e a quelle tabelle che ho letto nel Report dei tumori nella nostra provincia aggiornato al 2020.

E allora non posso fare finta di niente. Le immagini sono anche quelle degli impianti di pannelli fotovoltaici tra le Contrade Roncella e Scorpio che, ora che hanno perso i ripari (ulivi martiri) dietro cui parevano nascondersi, manifestano tutta la loro sfacciataggine. Non ci sono parole, gli alberi d’ulivo, quelli scampati agli incendi, rimangono lì come testimoni muti della (voluta?) mancanza di cure. Invece la distesa infinita di pannelli luccicanti come l’oro sembra non fare una piega.

Inutile farvi leggere per l’ennesima volta la sfilza di controindicazioni che generano le devastazioni della campagna: desertificazione del suolo, impoverimenti della biodiversità, scarsa generazione di ossigeno nell’aria, danni idrogeologici, cambiamenti microclimatici, ecc.

Tant’è che si sono studiate norme altamente specifiche che dovrebbero tutelare tutto il sistema ambientale, paesaggistico ed economico. Si tratterebbe soltanto di farle rispettare se non avessero purtroppo la stessa efficacia delle grida di manzoniana memoria .

Nonostante l’impegno – eravamo quattro gatti spelacchiati - non riuscimmo a evitare i danni del 2010 (quelle devastazioni sono sotto gli occhi di tutti, tranne dei ciechi), ma pensavamo che questo maledetto discorso si fosse chiuso definitivamente là, con i danni a noi e i milioni di euro alle società a responsabilità limitata, che oltretutto sono pure di fuori regione, se non spagnole (prima) e tedesche (poi).

 
Di Redazione (del 30/11/2020 @ 18:46:23, in NohaBlog, linkato 1005 volte)

Ce l’abbiamo fatta. Si anche quest’anno, siamo riusciti a ufficializzare per l’ennesima volta il nostro grido di allarme, quello per il Creato, sempre più degradato. Lo abbiamo fatto piantando due nuovi alberi al Giardino della Madonna delle Grazie. Due piante che si vanno ad aggiungere ad altre tre già messe a dimora nei giorni scorsi da qualche nostro concittadino sensibile alla causa.

Poca cosa, viene da dire, ed è vero se facciamo il confronto con la desertificazione in corso, cinque piante non fanno nemmeno la fatidica goccia nell’oceano. Considerando ciò il rischio di scivolare nell’amarezza prevale facilmente sul buon umore.

Viene a mancare perfino la voglia di dirlo, tanto che queste nostre buone intenzioni, quelle di continuare a ripetere a destra e manca che gli alberi ci danno l’ossigeno, che non sono loro a disturbare il nostro cammino, che sia un marciapiede, una strada asfaltata, una casa o qualsivoglia altro nostro alibi insostenibile, che loro, gli alberi, sono molto più importanti del 5G, dei comparti di abitazioni a schiera a scapito di tante abitazioni vuote, delle decine e decine di ettari di impianti fotovoltaici, che con la scusa del fabbisogno di energia verde, stanno (loro) desertificando le nostre campagne come fosse ( e lo è) un’altra pandemia. E non ci stanchiamo mai di dire che le risorse di questa Terra non sono infinite e che a doversene preoccupare dobbiamo esserlo tutti, dal primo all’ultimo: amministratori pubblici, politici, padri e madri, e nessun’altro escluso.

 
Di Marcello D'Acquarica (del 09/12/2020 @ 18:53:16, in NohaBlog, linkato 1488 volte)

Correva l’anno 1848, Noha era molto più piccola rispetto a oggi, praticamente un insieme di case, corti, palazzi (pochi), luoghi di culto, eccetera chiusi in un quadrilatero:  il lato Nord rappresentato da via Benevento e il complesso di case e cantine del Palazzo Baronale, il lato Ovest da via Catania con pochissime costruzioni civili e artigianali, e scavalcando via Aradeo, il lato Sud da Via Principe Umberto, Trozza compresa, e via Nazario Sauro, per chiudere il quadrilatero con il lato Est di via Collepasso che va a ricongiungersi con largo Castello, in cui insisteva l’ingombro di ciò che fu il glorioso Mastio menzionato da Fra’ Leandri Alberto. Non esisteva ancora via Carso e via Donatello “moriva” a ridosso delle mura dell’aranceto del Palazzo Baronale.

A dire il vero, via Donatello, che allora si chiamava “via Cisternella”, non moriva affatto, bensì proseguiva svoltando accanto alla misteriosa Casa Rossa, nel vico che oggi si chiude contro l’ingresso della villa cosiddetta “dell’Arciprete Greco”, per proseguire ancora davanti al muro che guarda a ovest dello Stabilimento Brandy Galluccio, fino a congiungersi con l’imbocco di via Collepasso.

La Masseria Colabaldi, oggi praticamente dirimpettaia delle case di via Tito Lucrezio, appariva lontana mille miglia dal centro del paese. Galatina ancora di più, un altro mondo.

Veniamo quindi alla nostra via Donatello, proseguimento di via Dalla Chiesa. Nessuna delle mappe descrive nel dettaglio il complesso dello stabilimento del Brandy, sia quella del 1948 che le mappe di Google. Quello che non si nota è il fabbricato perimetrale scollegato dal vero e proprio opificio, e cioè i piccoli locali adibiti alle attività amministrative che praticamente fanno da margine alla via di Noha attuale, quella cosiddetta “curve curve” e che a quel tempo si chiamava via Santa Lucia, in nome della omonima chiesetta, posta all’uscita di Galatina, oggi sulla grattugia del tempo.

I piccoli fabbricati amministrativi che fanno parte del Brandy Galluccio sono importanti per noi, perché praticamente sono stati costruiti direttamente sopra la necropoli messapica di cui tanto si è parlato, da essere state perfino oggetto di interesse della Soprintendenza dei Beni Culturali, che ha posto i suoi sigilli di tutela.

 
Di Antonio Mellone (del 10/12/2020 @ 22:24:38, in NohaBlog, linkato 1202 volte)

Io davvero non trovo requie se penso a quel che mi tocca vedere, sentire, leggere: tutti a chiedere soldi chiamati Ristori a quel povero gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline) con tutto il bene che ha già fatto – e soprattutto farà - al Salento, che dico al Salento, al mondo intero e forse pure oltre.

Mi chiedo perché mai andare con il cappello in mano da una multinazionale svizzera che già di sua sponte si è svenata per regalarci “ricadute occupazionali” e “volani per lo sviluppo” à gogo. Volete poi mettere tutti quei miliardi di metri cubi di metano che sono (forse) arrivati o che di sicuro arriveranno direttamente da quella democrazia liberale che è l’Azerbaigian? (Non darete mica retta a quei complottisti di Amnesty International, spero).

Ma soprattutto, ragazzi, che gas: green, rinnovabile, circolare, appena appena fossile, eco-compatibile, trasportato a basse temperature (per dirvi tutta l’attenzione di Tap per il clima), e principalmente a prezzi ir-ri-so-ri. Vedrete, vedrete a breve come ridurranno il peso delle vostre bollette (qualcuna vi arriverà addirittura a credito): più o meno come sperimentato con le fatture Enel grazie a tutte quelle coltivazioni di fotovoltaico a perdita d’occhio che ci avvolgono come in un sol caldo abbraccio.

E vogliamo parlare della Informazione glocale pronta a fare le pulci a questi colossi? Dai non si fa così: sarebbe bastata un po’ di autocensura (questa sconosciuta) e se ne sarebbe uscita con eleganza e senza tanti grattacapi. Oltretutto tra house organ e house orgasm il passo è breve. Invece no: inchieste su inchieste, indagini, dossier, domande scomode ai vertici aziendali, denunce senza tregua sul neocolonialismo di una prepotenza straniera che al contrario somiglia viepiù a una Ong stile Emergency; per non dire delle lenzuolate a favore di quei facinorosi dei No-Tap, anarchici che altro non sono.

 

Lo trovate in edicola al prezzo di 12 euro. Affrettatevi però, in quanto la tiratura è limitata, e al tabacchino di Noha è quasi in esaurimento.   

Tra i luoghi da favola come Lecce, Castro, Matino, Santa Maria di Leuca, ma anche Nardò, Oria, Tricase, Gallipoli, eccetera, eccetera, troverete anche Noha con la storia di Teodoro, lu Sciacuddhri e le sue Casiceddhre.

Chi non crede alle favole, si sa, è disposto a credere a tutto.

 

Noha.it

 
Di Antonio Mellone (del 23/12/2020 @ 13:33:24, in NohaBlog, linkato 1575 volte)

Premetto che non frequento gli istituti di bellezza, benché a Noha se ne annoverino almeno quattro e pure molto qualificati: ma non in quanto non creda di non averne bisogno, ma perché sono certo che sarebbe del tutto inutile nonostante talvolta possa capitarmi di udire affermazioni, che dico affermazioni, accenni alla mia venustà da parte delle tipe di turno (si chiama prosciutto sugli occhi), che, per quanto appunto mendaci, scendono dolcissimi alle mie orecchie e mi danno quella che si usa definire un’incontenibile emozione.

Vero è che soltanto una manciata di anni fa i centri estetici erano pressoché preclusi ai soggetti di sesso maschile; oggi invece pare che l’uomo non disdegni il pedicure, e va bene, ma anche la manicure (e io che credevo fosse sufficiente mangiarsi le unghie), la maschera facciale (oltre a quella di circostanza), e non vi dico cosa non arrivi a fare, il suddetto uomo, per le sopracciglia (tra forbici, pinzette, colore e addirittura gel trasparente), per l’epilazione del torso (non sia mai venga catalogato come villoso) e addirittura della schiena e delle gambe con tecniche di toelettatura le più disparate, per non parlare infine dei trattamenti di ringiovanimento o - come idioma tecnico comanda - Antiage a botte di Make up. E comunque non si può certo sostenere che, almeno su questo, e senza i miliardi del Recovery plan, la parità di genere non sia stata finalmente raggiunta.   

Ma non volevo discettare del Maschio Alfa (men che meno del Maschio Analfa), bensì del bel centro estetico della Maria Agata Paglialonga denominato “Ninfea” - dal nome di un fiore acquatico, particolarmente profumato, ricco di significati simbolici, ritratto centinaia di volte dal maestro dell’impressionismo francese Claude Monet (1940-1926) e cantato giustamente dai poeti, tra i quali Antonia Pozzi (1912-1938), i cui versi a tema iniziano così: “Ninfee pallide lievi - coricate sul lago – guanciale che una fata risvegliata – lasciò sull’acqua verdeazzurra […]), per poi continuare viepiù struggenti.

Ebbene, il Centro Estetico Ninfea di via Pirandello ha appena compiuto la (appunto) bellezza dei 15 anni di vita, ma visto il contesto è proprio il caso di dire che non ha manco una ruga. Anzi, non solo è fresco di maquillage diciamo edilizio (oltretutto, causa pandemia, i mesci son dovuti ritornare dopo poco per ulteriori interventi), ma anche di strumentazione all’avanguardia per i trattamenti di viso e corpo: mi vengono ora in mente il solarium, il vaporizzatore, il laser, e tutta l’apparecchiatura per la pressoterapia. Ma a dirla tutta il primo attrezzo del mestiere di Maria Agata e delle sue collaboratrici specializzate (frequentano mille corsi di aggiornamento, sono brave, e casualmente pure belle - come la loro capa) sono le orecchie. Sissignore, non può non essere l’Ascolto (ergo l’empatia) il più importante strumento di ogni lavoro, ma specialmente di un’attività che possa fregiarsi della qualifica di artigianale e che abbia quale punto di riferimento basilare la Persona. Prima che mi scordi vi dico pure i nomi delle professioniste che lavorano in questo studio: intanto c’è Ester che si occupa dell’accettazione (cortesissima, ma non mi farebbe accedere al centro per fare domande manco se le citassi a memoria tutti i loro prodotti di Nutrietica), poi Lorena Rossetti (la veterana, ma pur sempre giovanissima eh), e quindi Maria Luisa Pasca e  Chiara Lupo (non presenti nelle foto in quanto entrambe in maternità: la prima neo-mamma, la seconda bis-mamma) e infine, ma non meno importante, la Sofia, diciannovenne, figlia d’arte (cioè della principale).

Ora. Se volessi incentrare il discorso sul concetto di Benessere non la finirei più, con il rischio serio di farvi venire il latte alle ginocchia, i peli superflui, e pure le borse sotto gli occhi con tanto di zampe di gallina a corollario. Qui, invece, mi limiterei a ribadire il fatto che è vero che il benessere e la bellezza non possono non provenire che dal “di dentro”, cioè dall’Essere interiore, ma non tutti possono essere dei mistici alla Meister Eckhart: sicché credo sia giusto pensare che si possa tendere a un certo bilanciamento tra il mondo sensibile e quello endogeno, cercando possibilmente la versione migliore di se stessi (piuttosto che la solita brutta copia di qualcun altro) grazie anche a botteghe come la Ninfea di Noha.              

Compatendomi non poco, Maria Agata nella sua indulgenza plenaria sembra volermi dire che, lavorandoci un po’, ossia sodo (d’altronde, come si dice in paese, “Se bellu voi parìre, doja de core t’ha sapìre”), qualche speranza potrebbe esserci persino per il sottoscritto. Traduzione: se mi sottoponessi per esempio a qualche massaggio rilassante potrei risparmiarmi tranquillamente quell’aria così British che talora fa somigliare le mie movenze a quelle di un maggiordomo dei Windsor - quando invece altro non sarebbe che rigidità dei muscoli del collo dovuta al diuturno stress.    

Vi confesso che la titolare mi ha quasi convinto. Mo’ non mi resta che superare l’ultimissimo scoglio: il terrore della ceretta.

Antonio Mellone

 
Di Redazione (del 25/12/2020 @ 09:44:59, in NohaBlog, linkato 897 volte)

Auguri di buona Rinascita a tutti i Nohani e a tutti quelli che, in un modo o nell’altro, sono legati a Noha da un sentimento o da un ricordo. Li facciamo con l’immagine del Bambinello della chiesa madre di Noha, quello che nel corso degli anni cinquanta del secolo scorso, durante l’archipresbyteratus di don Paolo, si salvò (unica statua di quel presepe) da un violento incendio causato dal calore delle candele. Fatto emblematico in un tempo, questo, in cui si sente il bisogno di una Rinascita civile, culturale, politica e probabilmente pure sentimentale.  

Noha.it

 
Di Antonio Mellone (del 27/12/2020 @ 16:38:59, in NohaBlog, linkato 1046 volte)

Una buona fetta di galatinesi è a stento consapevole di quel che capita sul marciapiede di casa sua, salvo poi essere perfettamente al corrente su molti altri fatti (tipo cosa hanno mangiato a Natale e con chi gli “amici” di fb).

Un’altra porzione degli stessi è venuta a conoscenza solo per puro caso del fatto che ‘scappano’ i pini di viale don Bosco - nel senso che gli alberi se la squagliano proprio da questa città che evidentemente non li vuole e forse non li merita - ma la curva dell’elettroencefalogramma di codesti concittadini continua a rimanere appiccicata con il Super Attack all’asse delle ascisse, onde non storcono muso né muovono polpastrello sullo schermo tattile del personale smartphone né per dissentire (certuni credono che il verbo dissentire abbia endemicamente a che fare con il sostantivo dissenteria), né per appoggiare questa politica della sega (che a quanto pare sembra provocare l’acme del piacere). Sta di fatto che, come cantava quello, Là dove c’era l’erba ora c’è una citta (Citta, senza accento, mi raccomando, se no la traduzione dal vernacolo sarebbe diversa da Zitta, Muta, Remissiva, o Consenziente).

Abbiamo poi un’altra parte, “informatissima”, crediamo la stragrande maggioranza, che lungi dal prendersela con i propri pubblici amministratori (e perché dovrebbe visto che la rappresentano alla perfezione) per questa cosa che altrove chiamerebbero devastazione, scempio, sterminio, rovina del paesaggio o coglionaggine, è convinta sia cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza togliere di mezzo questi benedetti alberi di alto fusto, oltretutto in ottima salute, “visto che disturbano il traffico” (non viceversa), “possono essere pericolosi” (gli alberi sono pericolosi eh, mica i mattoni, il cemento, i muri, gli autotreni, le auto e le moto che sfrecciano a tutta birra su quel viale del tramonto), e poi “vuoi mettere i rischi con questo clima che sta cambiando repentinamente?” (qui evito commenti da querela), e infine, signora mia, “rovinano tutto quanto l’asfalto” (giuro, lo dicono ma soprattutto lo pensano veramente).

 
Di Marcello D'Acquarica (del 30/12/2020 @ 13:40:50, in NohaBlog, linkato 1123 volte)

Mi compiaccio della sua leggerezza, nasce così un primo nesso di simpatia con “Luoghi da Favola”, volume edito da Espera nel corso di quest’anno di Grazia 2020.

E’ il primo fattore di valutazione che adopero per un libro nuovo, la leggerezza. Poi ci sono le parole.

Subito cerco di carpirne i segreti, il più in fretta possibile, quindi lo sfoglio velocemente. Lo so che in questo modo è impossibile leggerlo, ma è una impulsività che fatico a dominare. Quindi passo ad esaminare l’indice. Resto colpito dalla parola “Noha”. Chissà cosa avranno da dire in un libro di favole sulla mia Noha? Cerco le immagini. Sono disegni mai visti finora, sembrano appunto, per favole.

Non faccio in tempo a leggere la prima storia, una presa a caso, che resto come inghiottito da un vortice.

E’ una lettura così coinvolgente che appena dopo poche pagine mi rendo conto della geniale organizzazione con cui il libro è strutturato, diviso in capitoli che separano racconti di battaglie, di principesse e amori infelici, di tesori e infine vicende di diavoli e santi. Le favole si snodano piacevolmente una dietro l’altra, e per ognuna di esse la storia, con luoghi e personaggi reali.

Immergendomi così nelle pagine mi sento come coccolato da una vera guida per viaggiatori, ed essendo luoghi a me più o meno noti, mi lascio trasportare dall’immaginazione che trova una facile sceneggiatura per ogni avventura narrata. Ad ogni paese una preziosità. E così si svelano segreti inimmaginabili, come per esempio Torre Suda, che deve il suo nome per essere stata utilizzata come cisterna, quindi trasudando acqua dalle pareti, come la torre del castello di Noha, che conserva in pancia antiche tracce del livello lasciato dall’acqua; Racale che forse deve il suo nome al mitico Ercole; la torre del Serpe, che lo deve ad una fantomatica serpe che succhiava l’olio dalla lanterna del faro; il laghetto Cocito di Castro e Felline con il suo castello normanno; dell’antica specchia di Martano, la torre di Babele salentina; la fantastica Serra di Sant’Elia fra Trepuzzi e Campi Salentina; delle antiche pietre messapiche di Muro leccese, dove trovo in molti massi messapici la somiglianza con il Menhir di Noha scoperto anni addietro nel fondo “Santu Totaru” e poi ancora a cercare sulla costa adriatica i resti dell’antica abbazia di Casole.

 

Canto notturno di un pastore ...

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