nov012017
Lo leggi tutto d’un fiato, questo libro meraviglioso ricevuto direttamente dalle mani degli autori una bella serata di fine agosto trascorsa a Castiglione d’Otranto in mezzo a tanta cultura, musica, un po’ di convegni, bei filmati, svariati semi viaggiatori e grandi utopie (le uniche in grado di cambiare il mondo).
Quando hai terminato di divorare il tutto - dal catalogo delle antiche varietà agricole a quello dei produttori, inclusi i loro recapiti telefonici, la bibliografia essenziale e ovviamente il manifesto per l’agricoltura naturale - ti viene d’istinto di pensare un po’ anche alla tua storia, quella che per studio e lavoro t’ha visto girovago in posti sovente piazzati a svariati chilometri di distanza dalla tua terra.
Anche tu, come molti altri, hai bazzicato per anni nella folta gradinata del Nord (che t’ha dato tanto, lo riconosci), ma con lo sguardo sempre puntato verso la curva Sud. L’ago della tua bussola, ribelle, fu sempre pronto a voltare le spalle all’eterna legge del magnetismo terrestre (e forse anche a quella del carrierismo pedestre).
Sì, hai sempre voluto far tendere a zero quei mille e passa chilometri di strade ferrate o autostrade o rotte aeree. E alla fine, da un pugno d’anni, ci sei pure riuscito. Non a tutti è concesso il dono della forza di gravità permanente verso una patria che ha la pazienza di aspettarti, talvolta senza cambiar nulla di quello che un tempo hai lasciato; spesso purtroppo cambiando tutto e in peggio.
Ma non fu vana la tua odissea (nessuna lo è). Lontano dal borgo natio hai iniziato a intuire i limiti di chi non si avvia, di chi si trattiene imbullonato a casa precludendosi il fardello della lontananza e i graffi della nostalgia. Lì, fuori dal guscio capisci invece che sovente non parte chi parte, parte chi resta. Chi resta, forse per troppa abitudine, non sempre riesce ad afferrare il valore di un complemento di stato in luogo sicché la sua terra non più promessa si trasforma in polverone informe, senza valore, pronto a cadergli di mano, e a diventare bersaglio immobile di soprusi e vili oltraggi.
Non tutti hanno la possibilità di azzerare i chilometri ripercorrendo la strada del rientro verso quella calamita (si spera senza accento finale) che è la terra del Salento. Per tanti (peccato, non per tutti) questa terra è diventata miraggio, stella cometa, segnale stradale di un rimpatrio, percorso inverso, retromarcia da ingranare finalmente per poter andare avanti.
Questo libro dunque parla di ritorni, di semi e germogli, di identità e cultura, di noi che una buona volta siamo quello che mangiamo. E parla - anche se non lo dice espressamente - delle mani ruvide e callose di mio padre affondate nel paniere delle olive, e a quelle di tante persone che, come lui, dicevano quello che facevano, e soprattutto quello che facevano corrispondeva a quello che dicevano. Era gente, questa, che versò lacrime e sangue sulle zolle, quelle stesse che invece oggi vengono ricoperte dagli sputi del cemento, del veleno, dell’abbandono, della bruttezza, della violenza di multinazionali che non guardano in faccia a nessuno, in nome di quella pigliata per fessi che è lo “sviluppo” (con le virgolette), vera istigazione a delinquere, buono solo ad aggiungere desinenze a un Sud che non ne aveva punto bisogno, trasformandolo d’emblée in sud-iciume, sud-ditanza, sud-divisione.
Chi pensa che la crescita venga spinta dai centri commerciali, dai villaggi turistici, dal turismo di massa, dal consumo di suolo senza freni, e dal tubo di ‘sto gas, sta uccidendo la bellezza di una geografia e la sapienza di un storia, e meglio sarebbe che dicesse una volta per tutte “I leave Salento” (me ne vado), piuttosto che, come fa scrivere su magliette e giornali prezzolati, “I love Salento”.
Lo zero è un numero che sembra non valer nulla, ma di fatto conta molto. Così, solo se facciamo tendere a zero le distanze tra di noi diventiamo comunità; solo se adottiamo la strategia dei rifiuti zero freniamo l’entropia che ci porterà alla rovina; solo se diamo valore zero alle chiacchiere consumistiche otteniamo la decrescita felice. Zero (e si spera anche minore di zero) è lo spazio tra due persone che si amano; zero è il livello cui mantenere i profitti per massimizzare i dividendi sociali (gli unici che val la pena di perseguire se si vuol salvare veramente l’Economia); zero, la velocità da dare a ogni veicolo diretto alla volta di un burrone.
Zero è capacità di sostare. E qui, sostare, come un padre antico che fa una pausa assiso su di un cesto, diventa so-stare, cioè “io so stare” qui, “io devo imparare a vivere in questi luoghi divini”, “ne sono in grado”, “ne ho acquisito il diritto”, e non per usucapione, ma per impegno, azione, lotta.
Solo con degli zeri riusciremo a trasformare questo territorio in un grande centro sociale, luogo di riscatto, mai più di ricatto, per chi per fortuna o per coraggio ha deciso di non dimettersi da questa terra.
Antonio Mellone
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