gen142019
Non ricordavo più di essere stato invitato dalla Cgil a discorrere di Luisa Palumbo, la pasionaria di Noha (1920 – 2003), nel corso di un convegno che ebbe luogo a Galatina nel Chiostro dei Domenicani, ex-convitto Colonna, oggi “Palazzo della Cultura Zeffirino Rizzelli”, nel mese di ottobre 2006 in occasione del centenario di quel sindacato.
Mi sono imbattuto nelle foto che ritraggono i relatori di quel simposio (tra i quali, dunque, anche il sottoscritto), mentre ero intento a cercare in rete storie sul ruolo che le associazioni dei lavoratori hanno avuto nel campo della conquista dei diritti delle classi operaie dal nord al sud della penisola.
Ma non è di quell’incontro che ora m’interessa parlare, bensì dell’odierno ruolo del sindacato: o meglio di ciò che temo sia diventato in certe frange.
Premetto di aver restituito la mia tessera d’iscrizione un paio d’anni fa, forse più (motivandone le ragioni con una lunga lettera, rimasta come paventavo senza risposta), e che scrivo queste righe con dolore. Davvero.
Nessuno mette in dubbio il fatto che senza il sindacato oggi saremmo ancora ai tempi della prima rivoluzione industriale, che le divisioni non fanno altro che indebolirne la funzione, che di questo passo faremo la fine dei capponi di Renzo (quelle povere bestie, “le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura” – cap. III dei Promessi Sposi), e che per quanto ovvio è meglio una torcia tremola che il buio completo. Ma credo che, purtroppo, sia in corso ormai da tempo una sorta di iato incolmabile tra rappresentanze sindacali e rappresentati (il che è più o meno quel che sta avvenendo tra elettori e diciamo politici “de sinistra” - molti platealmente improponibili, al centro come in periferia).
Sì, perché ormai è risaputo quanto il sindacato presenti dei lati oscuri, o forse fin troppo chiari (cfr. “L’altra casta” di Stefano Livadiotti, Bompiani, 2009; ma anche altre inchieste), aspetti che lo hanno, come dire, debilitato, trasformandolo in un carrozzone burocratico. E fosse solo questo il problema. È che non si intravede più da tempo nemmeno un barlume di lotta di classe, bensì genuflessioni continue, firme semiautomatiche su quasi tutti i provvedimenti neoliberisti che prevedono meno salario e più orario, con l’aggravante del solito trattamento differenziato, in peggio, per i nuovi assunti.
Vogliamo poi parlare dei privilegi, e degli stipendi da favola della casta sindacale? O di connivenze e comportamenti opportunistici da parte di numerosi suoi esponenti, dal vertice alla base della piramide? O della scarsa trasparenza dei loro diciamo giri d’affari, e quindi bilanci? O addirittura di certe vertenze in difesa di singoli “lavoratori”, vagabondi per lo shopping, assenteisti o nullafacenti, a discapito invece della maggior parte dei lavoratori (questa volta senza virgolette)? Che dire infine di certe truffe del Caf?
Non so voi, ma io sono stanco dei sindacati di lotta e di governo. Se un sindacato non è di lotta, allora non è.
Una tessera sindacale dovrebbe essere simbolo della dignità del Lavoro, non un passaporto per gli interessi del Capitale.
Rivoglio un sindacato vero, quello la cui tessera è emblema di una comunità che non permette ad alcuno dei suoi membri di cadere in disgrazia.
Antonio Mellone
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