feb202025
Erano le 20:44 del 21 febbraio di dieci anni fa quando Federica, nipote di don Donato, mi contattò su Messenger per avvisarmi che, da pochi minuti, suo zio non c’era più. Ricordo con lucidità ogni istante di quel momento, così come ricordo pure la gioia grata per essere riuscito a fargli visita in ospedale la settimana precedente, prima di rientrare a Molfetta.
Quella mattina, don Donato era stanchissimo, coricato di lato. Gli avevano servito il pranzo poco prima, ma lui non aveva voluto neppure sfiorarlo. Maria Rosaria, speranzosa, lo aveva posato sui termosifoni, come a volerlo mantenere caldo. Non aveva la forza di parlare; senza occhiali, mi fissava negli occhi e, con la sua mano affusolata - e come sempre fredda - stringeva la mia. Le sue palpebre iniziavano a chiudersi. Dopo circa venti minuti, per lasciarlo riposare, ci salutammo e, forse, fu solo allora che riuscì ad aprire bocca. Sapendo che, tornando in seminario, non sarei rientrato a Noha prima della Settimana Santa, lo accarezzai e gli dissi: “Don Donato, ti saluto! Mi raccomando, mantieniti forte: ci vediamo a Pasqua”.
In quello stesso istante don Donato riaprì il suo occhio più grande, il sinistro, e con voce fievole rispose: “Sarà Pasqua!”. Lasciai la sua mano, feci un cenno di saluto a Maria Rosaria e uscii dalla stanza con gli occhi lucidi: sapevamo entrambi, sia io che lui, che la Pasqua era ormai vicina: quella Pasqua che ora vive in eterno nel cuore del Dio che ha tanto amato.
Don Donato, a ben pensarci, era 'na Pasqua in ogni cosa! Nel suo essere tutto d'un pezzo, nella sua generosità, nella sua voglia di sapere, conoscere e raccontare, nelle sue abitudini routinarie, nella cura delle piante che riempivano ed addobbavano il suo studio sotto casa, negli scherzi che ogni sera, dopo la Messa, ci chiedeva di fare a Rita, nascondendole la borsa. Era 'na Pasqua in quel “Signore, apri le mie labbra” che ripeteva ostinatamente più e più volte, prima di iniziare la preghiera dell’invitatorio, finché non sentiva di aver raggiunto la giusta concentrazione per la preghiera. Era 'na Pasqua in tutto: un uomo e un prete pienamente pasquale.
Sono ormai dieci anni che don Donato non è più con noi; non lo vediamo più, neppure di profilo, dietro quella finestra in piazzetta Trisciolo, ricurvo sul suo breviario, con le chiavi già nella toppa della porta, sempre aperta a chiunque. A distanza di tanto tempo, oggi, anch’io, da giovane prete e parroco, spesso mi ritrovo a pensare a lui, ricordando il suo modo di essere prete per la gente. Lo penso quando sento bussare alla mia porta da qualche anziano fedele a suon di: “Arciprete, c’è permesso?”, così come quando incontro qualche suo vecchio confratello di Nardò e a cui dico orgogliosamente di essere di Noha. Lo penso quando ripercorro la mia infanzia da giovane chierichetto alle prime armi, e quando, infine, ricordo gli ultimi anni della mia formazione a Molfetta, durante i quali, come un nonno attento e premuroso, cercava sempre di informarsi su come procedessero il cammino e gli studi. Chissà quanti sogni avrà nutrito per ciascuno di quei suoi affezionati seminaristi, le cui vocazioni sono nate e cresciute anche sotto il suo sguardo e la sua preghiera.
Oggi, dal canto mio, non posso che custodire vivi nel cuore il suo affetto e ogni suo insegnamento, così come serbo nitida negli occhi e nella mente la sua compostissima figura, mentre ancora lo immagino salire le scale della sagrestia, canticchiando a bocca chiusa, con la giacca nera sulle spalle, un corposo mazzo di chiavi in mano e quel sorriso sornione con cui mi guarda e mi ripete il suo consueto “giovanotto, va bene! Va bene sempre”.
don Giuseppe Paglialonga
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